LA FED SOTTO LA LENTE
Ci avviamo alla fine del mese di Luglio, consapevoli che anche negli Stati Uniti, non è tutto oro quel che luccica, in particolar modo dopo la pubblicazione dei dati sui Pmi manifatturiero, dei servizi e composite, pubblicati venerdì scorso. Numeri che sembrerebbero dimostrare che anche gli Usa non saranno esenti da una possibile recessione, nel prossimo autunno, specie se i dati, da oggi in poi, e in seguito all’ormai certo ulteriore rialzo del costo del denaro, da parte della Fed, questa settimana, dovessero evidenziare un rallentamento economico, comunque prevedibile in relazione all’aggressività della banca centrale americana nel restringere la politica monetaria. I pmi Usa sono usciti, rispettivamente a 47 nel settore dei servizi, 52.3 nel settore manifatturiero (comunque inferiore al consensus) e a 47.5 nel composite, due su tre al di sotto della soglia fatidica di 50 punti. Numeri addirittura peggiori a quelli di Eurozona che, nonostante tutti i problemi che attanagliano il vecchio continente, ha mostrato un calo a 50.6 per i servizi, 49.6 per il manifatturiero e 49.4 per il composite. Se poi ci mettiamo anche quelli inglesi, i migliori, usciti rispettivamente a 53.3, 52.2, e 52.8, forse ci rendiamo conto di come la narrativa corrente abbia influenzato i mercati anche al di là dei numeri reali, che invece sembrano mostrare una realtà leggermente differente. E’ chiaro che non possiamo solo considerare questo aggregato, che peraltro è un sondaggio fatto presso i direttori di acquisto delle grandi aziende, per voler dimostrare chissà cosa, ma è altrettanto chiaro che ad oggi, ciò che ci è stato raccontato dai membri del board della Fed, relativamente ad un mercato ancora in crescita e necessità quindi di alzare il costo del denaro in modo aggressivo, forse non corrisponde del tutto alla verità. Ma è altrettanto chiaro che non è che la Fed non conosca i numeri, li conosce molto meglio di qualunque altro, probabilmente, ma l’atteggiamento che tiene serve proprio a permettere di alzare i tassi fino al livello che, quando la recessione arriverà, le permetterà di essere pronta ad abbassarli velocemente e a partire da livelli decisamente più alti di quelli attuali. La questione quindi, e per questa ragione anche le altre banche centrali, dovrebbero in qualche modo seguire la Fed, è legata al dover alzare per avere spazio di manovra al ribasso successivamente. Lo abbiamo detto già, ma va ribadito. La Bce non segue invece la Fed in questo ragionamento, e la ragione comunque pare, in questo caso, anche logica, cioè legata alla frammentazione, perché se fosse troppo aggressiva, danneggerebbe oltremodo l’economia, già in difficoltà, di alcune aree periferiche, tra cui il nostro paese. Però, la Bce sembra voler adottare altri sistemi per affrontare la recessione, ovvero il TPI (transmission protection instrument) unitamente agli altri programmi, Pepp, Ap, per affrontare prossimamente il calo della congiuntura che presumibilmente potrebbe sfociare in recessione. Ed è questa la motivazione per cui è più cauta nel rialzo dei tassi. La settimana che si apre però diventa quella chiave, prima dell’arrivo del mese di agosto. che non vedrà alcun appuntamento della Fed che poi si riunirà nuovamente a settembre. E’ attesa infatti la decisione del board, mercoledì prossimo, con un rialzo di 0.75% con i fed funds che presumibilmente saliranno al 2.5%. Successivamente giovedì verranno pubblicati i dati sul Pil Usa del secondo trimestre, atteso a +0.4% su base trimestrale dopo il -1.6% del primo trimestre. Ma attenzione anche ai dati sulla disoccupazione settimanale, che nelle ultime rilevazioni ha mostrato qualche piccola crepa. Sul fronte valutario, questa diversa narrazione tra le banche centrali europea e statunitense, ha portato la moneta unica a scendere cercando lo sfondamento di parità, poi rientrato, almeno temporaneamente. E ora la moneta unica si trova in bilico in area 1.0200. Questi ultimi dati però potrebbero, se non invertire la rotta, almeno spingere l’Euro ad una correzione più significativa, verso il test del famoso breakout violato qualche settimana orsono, a 1.0350 60 area. Ma ciò forse potrebbe accadere dopo la decisione della Fed mercoledì sera. Prima, le aspettative di rialzo, potrebbero ancora spingere il biglietto verde verso livelli superiori. Un capitolo a parte va riservato alla sterlina, che nonostante dei dati che onestamente sembrano migliori che in altre aree, almeno da quel che si è visto nelle ultime settimane, vive un periodo di deficit di credibilità, per tutte le vicende connesse alle dimissioni di Johnson, alle questioni irrisolte con l’Europa relativamente all’Irlanda e all’attesa per la scelta del nuovo Primo Ministro. Ma forse, c’è da dire che tutte le notizie negative, sono già dentro i prezzi attuali, e ulteriori discese del Cable verso 1.1500 potrebbero anche essere intercettate da acquisti di Istituzionali, tra cui anche la Boe, che recentemente ha messo in guardia da un eccesso di deprezzamento del cambio, in ragione di un inflazione troppo alta, alimentata anche da questa debolezza del pound. Attenzione però all’EurGbp che tecnicamente ha tenuto egregiamente area 0.8400 e potrebbe anche accelerare verso 0.8700 nuovamente. Tra gli scettici sulla sterlina vi sono anche alcune banche d’affari che danno il cross a 0.9100 per fine anno. Staremo a vedere. Veniamo ora al petrolio che sul Wti si è messo stabilmente sotto i 100 dollari al barile, nonostante tutte le incognite a livello globale, che facevano pensare a prezzi decisamente superiori. Ad alimentare la distribuzione del prezzo, tecnicamente, sono i timori sulla recessione di alcune aree del primo mondo, notoriamente le più energivore, che potrebbero decisamente ridurre la domanda nel prossimo inverno, dato che si parla insistentemente di razionamenti un po’ dappertutto. Sotto quota 90 secondo noi potrebbe aprirsi spazio per un test delle aree di supporti di medio termine comprese tra 65.00 e 55.00 area, che ora potrebbe sembrare azzardato come target, ma in circostanze come quelle attuali, secondo noi anche possibili, magari non subito. In relazione a questo scenario, ritorna anche possibile un recupero dello Jpy che dai livelli contro dollaro di 139.40, è risalito fino a portare il cambio originale UsdJpy a 136.05, quasi 350 pips di discesa in due sedute. Attenzione alla volatilità di questo strumento, specie se vogliamo ricordare cosa accadde nel 1998, durante la crisi russa. UsdCad tornato sopra 1.2900 sulle resistenze dopo aver testato il supporto chiave a 1.2820. Determinante sarebbe il superamento delle resistenze per tornare verso 1.3100. Molto dipenderà dai movimenti del crudo. Oceaniche le più stabili, con Aud e Nzd che cercano di arrampicarsi faticosamente sopra le resistenze. Ovviamente dipendono dall’andamento del dollar index e dell’EurUsd, i main drivers. Buon trading e buona settimana.
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